martedì 3 febbraio 2009

Ortodossi e Cattolici. Differenze e Convergenze



C'è subito da dire che, proprio per la comune origine delle due Chiese, le somiglianze sono molte di più delle differenze. Se le somiglianze risaltano facilmente, le differenze appaiono invece chiare per lo più ai soli studiosi.
Esposizione e contenuto della teologia ortodossa
Dio e Trinità.
L'esistenza di Dio, nella teologia ortodossa, è più sentita che dimostrata. Dio per l'ortodosso non è un'idea astratta, ma una realtà viva, presente e operante. Quanto alla sua natura, la ragione umana ha difficoltà a dimostrarla. E’ più facile dire ciò che Dio non è, che ciò che è. Si conoscono però bene le sue perfezioni e i suoi attributi, in quanto con questi Egli si è rivelato agli uomini. Non è quindi il Dio ignoto dei filosofi, ma un Dio vivo che si rivela e agisce.
La Trinità delle persone in Dio è insegnata e creduta esplicitamente sia dalla Chiesa ortodossa che dalla Chiesa cattolica. Solo nel modo di esporla la teologia ortodossa diversifica alquanto dalla teologia cattolica.
Creazione e peccato originale
La dottrina ortodossa sulla creazione, sia del mondo sia dell'uomo, è perfettamente identica a quella cattolica. Con la parola mondo s'intende non solo il mondo visibile (terra, astri, ecc.), ma anche il mondo invisibile (cioè angeli, la cui dottrina occupa nella Chiesa orientale un posto ancor più grande che nella Chiesa occidentale).
Alquanto diversa è invece la dottrina sul peccato originale. In Occidente ha prevalso la dottrina di Sant'Agostino, che vede la responsabilità di tutti gli uomini nel peccato di Adamo. In Oriente, invece, si preferisce ammettere che non è la colpa che passa nei singoli uomini, ma la conseguenza della colpa, la cui imputazione rimane circoscritta al solo Adamo.
Incarnazione e redenzione
Mentre la teologia occidentale vede nella redenzione prevalentemente la liberazione dal peccato, quella orientale vede invece la divinizzazione della natura umana, mediante l'assunzione di questa da parte di Cristo nell'incarnazione.
Solo nel sec. XVI e XVII fu accolta dai teologi ortodossi la dottrina di Sant'Anselmo della soddisfazione infinita offerta dal sacrificio della croce, ma i teologi più moderni sono sempre maggiormente propensi a respingere questa dottrina in quanto formula giuridica e antropomorfica.
Mariologia
La dottrina ortodossa sulla Madonna si trova enunciata nel Catechismo greco ortodosso, pubblicato nel 1928 da Callinico, arcivescovo di Tiatira, dove si legge: "La nostra Chiesa chiama la benedetta Maria "Madre di Dio", perché veramente essa ha generato Dio; "Immacolata" perché essa fu purificata da ogni macchia dalla discesa dello Spirito Santo in seguito alla visita dell’Angelo; "sempre vergine", perché essa ha conservato la verginità prima, durante e dopo il parto"
Come si vede, a parte la singolare dottrina che sostiene l'immacolatezza della Madonna solo a partire dall'Annunciazione, per tutto il resto concorda con la dottrina cattolica.
Circa l'Assunzione corporea in cielo della Madonna, anche se essa non viene trattata esplicitamente dai teologi ortodossi, rimane il fatto che la liturgia bizantina ne celebra il ricordo fin dal V secolo. E siccome in Oriente la liturgia è veramente considerata regola di fede, non c'è dubbio che anche questa verità mariologica faccia parte del deposito comune delle verità di fede professate dagli ortodossi e dai cattolici.
Escatologia e novissimi
Sulla sorte delle anime dopo la morte, vi sono molte divergenze con la dottrina cattolica. Generalmente i teologi ortodossi negano che alla morte segua subito un giudizio definitivo sul destino eterno dell’anima e sono invece inclini ad ammettere che il giudizio, cosiddetto particolare dai cattolici, sia solo un giudizio provvisorio, per il quale l'anima si limita a prendere conoscenza del premio, o della pena che ha meritato.
In attesa del giudizio finale. le anime dei morti rimarrebbero in uno stato intermedio detto ade, in cui non possono né meritare né espiare: possono però essere aiutate a cambiare la loro situazione e a essere liberate, anche dal peccato mortale, dalle preghiere e dai suffragi dei vivi. Unica condizione, che non siano morte in stato di disperazione.
La dottrina ortodossa sulla condizione intermedia dell’anima esclude perciò l’idea di un purgatorio, così come è concepito dalla teologia occidentale. Diffusa è pure l’opinione che non si possa parlare di pene eterne di peccato esterno. Pochi tra gli ortodossi sono disposti ad ammettere tranquillamente e in senso assoluto, che vi siano anime dannate in eterno: ciò sarebbe contrario all’immenso amore di Dio.
La gente semplice prega per tutti i morti, credendo che Dio possa strappare dalle pene dell’inferno anche il più grande peccatore.
I Sacramenti
Come la Chiesa cattolica anche l'ortodossa ha una teologia sacramentaria che ammette l'esistenza di riti particolari, detti in greco misteri e in latino sacramenti, i quali, secondo una definizione abbastanza comune, sono azioni sacre istituite da Cristo e compiute dai suoi ministri, le quali contengono la grazia invisibile di Dio e la comunicano mediante un segno visibile. Per quanto riguarda il numero dei sacramenti, tutta la tradizione ortodossa concorda con quella cattolica nell'ammetterne sette. Quanto al carattere indelebile di alcuni, esso viene universalmente ammesso per il Battesimo, non da tutti per la Confermazione e l'Ordine sacro.
A) Battesimo
Anche per gli ortodossi il Battesimo è il primo dei sacramenti e di tutti il più necessario, perché per esso si viene introdotti nella Chiesa. Ministro del Battesimo è sempre il sacerdote; il laico ortodosso solo in caso di necessità.
A differenza dei cattolici, presso gli ortodossi il sacramento viene amministrato per immersione.
Quanto alla validità del Battesimo dei cattolici romani, oggi essa è universalmente accettata; non così in passato. Tuttavia non mancano qui e là casi di ribattezzazione. Come la chiesa cattolica, così anche quella ortodossa ammette la possibilità di sostituire al Battesimo di acqua il Battesimo di sangue, cioè il martirio.
B) Cresima
Nella Chiesa ortodossa la Cresima segue immediatamente il Battesimo e generalmente viene conferita nel corso della stessa celebrazione. Essa viene conferita dallo stesso ministro che è il sacerdote, e la sua amministrazione non è riservata al Vescovo. La materia della Cresima è costituita dal sacro crisma che è olio di oliva purissimo mescolato a una gran quantità di sostanze aromatiche, consacrato dal vescovo, il Giovedì santo, ogni sette anni.
La formula consiste nelle parole: "Sigillo del dono dello Spirito Santo" e l'unzione viene fatta non solo sulla fronte, ma anche su occhi, narici, orecchie, bocca, petto, mani e piedi. Contrariamente alla Chiesa cattolica, gli ortodossi ammettono che la Cresima si possa reiterare quando si tratta di apostati che ritornano alla loro fede.
C) Eucaristia
La dottrina della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia è chiaramente espressa nella lettera che i patriarchi orientali inviarono nel 1723 ai vescovi anglicani.
"Noi crediamo - essi scrissero - che in questo sacramento N. S. Gesù Cristo non è presente solo simbolicamente o figurativamente, ma veramente e realmente, così che dopo la consacrazione del pane e del vino questi, quanto allo loro sostanza, sono cambiati e mutati nel vero corpo del Signore".
Quanto al momento della trasformazione del pane e del vino in Eucaristia, che noi chiamiamo transustanziazione, per la maggioranza dei teologi ortodossi moderni le parole sacramentali e l'invocazione dello Spirito Santo, detta epiclesi, formano un tutto inscindibile.
Circa la materia dell'eucaristia, l'Oriente propende per il pane fermentato perché lo ritiene più completo, in quanto considera il lievito come anima del pane stesso e vede in questo meglio raffigurata la sua dottrina sulla natura umana completa di Cristo, anima e corpo.
La Chiesa ortodossa non condivide l'uso della Chiesa latina della comunione sotto una sola specie e anche qui essa è aderente alla sua dottrina del Cristo totale, secondo la quale il Signore nell'Eucaristia si forma un corpo di pane e lo anima col suo sangue. (2)
D) Penitenza
Ministro della Penitenza, anche per la Chiesa ortodossa, è il sacerdote. Nel medioevo era diffuso l'uso di confessarsi a monaci non sacerdoti e di ricevere da loro l'assoluzione, ma questo abuso fu combattuto dai teologi e condannato dalla Chiesa ortodossa.
La penitenza che il sacerdote impone dopo la confessione, le cosiddette epitimie secondo l'attuale dottrina teologica ortodossa, non hanno carattere soddisfatorio, ma soltanto pedagogico, perché il sacramento cancella anche le pene.
Per questo motivo la Chiesa ortodossa ignora e rifiuta la dottrina cattolica delle indulgenze.
E) Ordine sacro
L'Ordine nella Chiesa ortodossa comprende tre gradi: diaconato, presbiterato ed episcopato. Anticamente, la Chiesa ortodossa riteneva che la consacrazione, una volta ricevuta, fosse incancellabile e quindi l'ordinazione non si potesse reiterare. Oggi i teologi ortodossi sono inclini ad ammettere che l'Ordine sacro non abbia carattere indelebile e che lo si possa perdere per degradazione o per rinuncia.
Riguardo alla validità di ordinazioni fatte da vescovi non ortodossi, compresi i cattolici, la Chiesa ortodossa non ha tenuto una condotta costante; talvolta le ha respinte, talvolta le ha accettate.
F) Matrimonio
Il Matrimonio viene definito nella teologia ortodossa: "il sacramento per il quale, mentre il sacerdote pone l'uno nell'altra la mano degli sposi e implora su di loro lo benedizione di Dio, la grazia divina scende su di loro e li unisce indissolubilmente per tutta la loro vita, per il mutuo aiuto e per la generazione dei figli in Cristo". In questo modo, secondo la concezione ortodossa, il ministro del sacramento è il sacerdote e non, come nella Chiesa cattolica, gli sposi. Tale concezione però è solo della teologia ortodossa recente, perché in passato si intendeva che i ministri del sacramento fossero gli sposi stessi.
Esiste invece un profondo contrasto tra la dottrina cattolica e quella ortodossa per ciò che riguarda l'indissolubilità del matrimonio. Secondo la teologia ortodossa, infatti, il matrimonio può essere sciolto ove intercorrano alcune ragioni. Quante e quali siano queste ragioni è difficile poterlo dire, in quanto la prassi ortodossa varia da Chiesa a Chiesa e talvolta da regione a regione all'interno di una stessa Chiesa.
G) Olio santo
Dalla teologia ortodossa l'Olio santo viene definito il sacramento per il quale il sacerdote unge con olio l'infermo e implora la grazia di Dio per la guarigione dalla malattia corporale che l'affligge e, insieme, dai mali spirituali che spesso sono la causa di quelli materiali. L'olio necessario per le unzioni deve essere consacrato ogni volta e questo rito comporta la presenza di sette sacerdoti, i quali poi procedono all'unzione dell'infermo. Da notare che spesso l'amministrazione di questo sacramento viene fatta anche fuori dei casi di malattia e talvolta è un rito che si compie il Giovedì santo su tutti i presenti, oppure in altre particolari circostanze.
Dottrina sulla Chiesa
La Chiesa, nella dottrina ortodossa, più che una società è concepita come una comunità di credenti, alla quale appartengono di diritto quanti sono battezzati in Cristo. Capo di questa comunità non può essere un uomo, ma solo il Signore Gesù Cristo. Suoi vicari, nelle singole Chiese particolari, sono i vescovi eletti dallo Spirito Santo come successori degli apostoli.
Le Chiese locali, presiedute dai propri vescovi, sono unite dall'identità della loro fede e della loro testimonianza. L'unità della Chiesa si ha quindi, secondo gli ortodossi, dall'unità dì fede e non dall'unità di amministrazione gerarchica.
Principali punti di divergenza
Secondo quello che può ritenersi l'insegnamento comune dei teologi ortodossi, i punti di divergenza fra la dottrina ortodossa e quella cattolica sarebbero attualmente i seguenti:
1) La Processione dello Spirito Santo, che dai cattolici viene attribuita congiuntamente al Padre e al Figlio, mentre dagli ortodossi viene attribuita solo al Padre. La storia di questa controversia è molto antica. La tesi della Processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio ("Filioque", in latino, da cui il nome della questione) venne fatta propria da Sant'Agostino e da altri Padri occidentali, mentre la formula "a Patre per Filium" venne invece seguita dai bizantini. Per molto tempo essa non diede luogo a particolari dispute. Durante il medioevo questa controversia continuò ad agitare i teologi, sia greci che latini, e a nulla valsero gli accordi raggiunti nei Concili di Lione (1274) e di Ravenna - Firenze (1438-39). Oggi la questione ha perduto molto della sua acredine polemica.
2) L'aggiunta della parola "Filioque" al Credo, venne fatta dai latini, ma non ritenuta legittima dagli ortodossi. La storia di questa aggiunta non è ben chiara. Non esiste, infatti, né un concilio, né un documento pontificio che ne abbia autorizzato l'inserzione. La sentenza più comune indica la Spagna come il luogo dove, per primo, si sarebbe verificata questa aggiunta verso la fine del sec. VII. Dalla Spagna questo uso sarebbe passato in tutto il mondo latino, con l'apporto di Carlo Magno, dopo la sua incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero, e dove dalla Chiesa romana sarebbe stato fatto proprio verso la fine del sec. VIII.
3) La controversia delle parole consacratorie o epiclesi. Secondo i cattolici occidentali la consacrazione eucaristica avviene con le sole parole: "Questo è il mio corpo [...] Questo è il mio sangue...". Secondo gli orientali a queste parole bisogna aggiungere la speciale invocazione allo Spirito Santo, detta epiclesi.
La questione dell'epiclesi ebbe come sostenitori acerrimi i greci, i quali però, più che su argomenti teologici, basavano la loro spiegazione su argomenti liturgici. I latini si rifacevano, e insistono ancora oggi, sull'antichità della loro dottrina, che è di molto anteriore alla controversia sollevata dai greci.
4) La dottrina del purgatorio e dell'escatologia. La controversia su questo argomento sorse molto tardi, verosimilmente agli inizi del sec. XII e venne molto dibattuta durante il Concilio di Firenze (1438). Fin da allora si erano formate due correnti tra i teologi greci: alcuni negavano recisamente l'esistenza del purgatorio e ne respingevano perfino il nome; altri, sotto la guida del cardinale Bessarione, si limitavano invece a dissentire dai latini solo per quanto riguarda la reale pena del purgatorio, se cioè essa consistesse nel fuoco o in qualche altra privazione.
5) il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Anticamente la teologia bizantina non aveva mai posto in dubbio questo particolare privilegio di Maria, anche dopo la separazione delle Chiese. Tuttavia non sono mancati teologi, specialmente russi, che a partire dal sec. XVI, sotto l'influsso della teologia protestante, hanno cominciato a esprimere certe riserve. In realtà esiste su questo punto un certo divario anche fra i teologi ortodossi.
6) La dottrina sul primato romano e sull'infallibilità pontificia. Questo punto, che i teologi ortodossi unanimemente non vogliono riconoscere e che in definitiva costituisce la ragione della loro separazione dalla Chiesa romana, è l'unico grande ostacolo alla riunione.
A proposito del primato romano, alcuni anni fa il patriarca dì Mosca, Pimen, affermava: "La questione del primato di Roma resta sempre lo scoglio sullo via dello riunificazione organica delle nostre Chiese..." e, nel 1992, in un'intervista rilasciata a Jesus, anche il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, ha dichiarato: "E’ sempre questa questione che maggiormente ci separa".
La storia di questa controversia ha inizio praticamente con il patriarca Fozio (sec. IX). Prima di lui non erano mancati dissidi fra la Chiesa bizantina e la Chiesa romana, ma nessuno mai aveva posto in dubbio l'autorità del Vescovo dì Roma su tutta la Chiesa.
Conseguenza prima della negazione del primato del Papa è il non riconoscimento dell'infallibilità pontificia, che venne proclamata come dogma di fede nel Concilio Vaticano I, del 1870.

Concludendo...
Dopo aver studiato per lunghi anni le differenze tra cattolici e ortodossi, quelle stesse di cui abbiamo parlato, il filosofo russo Vladimir Solov'ev giunse a questa consolante conclusione: "Cattolici e ortodossi continuano immutabilmente a essere membri dello stessa Chiesa di Cristo, una e indivisibile. Benché separati non hanno cambiato il loro rapporto con Cristo e con lo sua Grazia misteriosa. Da questo punto di vista, non dobbiamo nemmeno preoccuparci della riunione, perché siamo già una cosa sola".

Benetto XVI ai Giudici della Rota Romana

Illustri Giudici,

Officiali e Collaboratoridel Tribunale della Rota Romana!

La solenne inaugurazione dell’attività giudiziaria del vostro Tribunale mi offre anche quest’anno la gioia di riceverne i degni componenti: Monsignor Decano, che ringrazio per il nobile indirizzo di saluto, il Collegio dei Prelati Uditori, gli Officiali del Tribunale e gli Avvocati dello Studio Rotale. A voi tutti rivolgo il mio saluto cordiale, insieme con l’espressione del mio apprezzamento per gli importanti compiti a cui attendete quali fedeli collaboratori del Papa e della Santa Sede.

Voi vi aspettate dal Papa, all’inizio del vostro anno di lavoro, una parola che vi sia luce e orientamento nel disimpegno delle vostre delicate mansioni. Molteplici potrebbero essere gli argomenti su cui intrattenerci in questa circostanza, ma a vent’anni di distanza dalle allocuzioni di Giovanni Paolo II sull’incapacità psichica nelle cause di nullità matrimoniale, del 5 febbraio 1987 (AAS 79 [1987], pp. 1453-1459) e del 25 gennaio 1988 (AAS 80 [1988], pp. 1178-1185), sembra opportuno chiedersi in quale misura questi interventi abbiano avuto una recezione adeguata nei tribunali ecclesiastici. Non è questo il momento per tracciare un bilancio, ma è davanti agli occhi di tutti il dato di fatto di un problema che continua ad essere di grande attualità. In alcuni casi si può purtroppo avvertire ancora viva l’esigenza di cui parlava il mio venerato Predecessore: quella di preservare la comunità ecclesiale «dallo scandalo di vedere in pratica distrutto il valore del matrimonio cristiano dal moltiplicarsi esagerato e quasi automatico delle dichiarazioni di nullità, in caso di fallimento del matrimonio, sotto il pretesto di una qualche immaturità o debolezza psichica del contraente» (Allocuzione alla Rota Romana, 5.2.1987, cit., n. 9, p. 1458).

Nel nostro odierno incontro mi preme richiamare l’attenzione degli operatori del diritto sull’esigenza di trattare le cause con la doverosa profondità richiesta dal ministero di verità e di carità che è proprio della Rota Romana. All’esigenza del rigore procedurale, infatti, le summenzionate allocuzioni, in base ai principi dell’antropologia cristiana, forniscono i criteri di fondo non solo per il vaglio delle perizie psichiatriche e psicologiche, ma anche per la stessa definizione giudiziale delle cause. Al riguardo, è opportuno ricordare ancora alcune distinzioni che tracciano la linea di demarcazione innanzitutto tra «una maturità psichica che sarebbe il punto d’arrivo dello sviluppo umano», e «la maturità canonica, che è invece il punto minimo di partenza per la validità del matrimonio» (ibid., n. 6, p. 1457); in secondo luogo, tra incapacità e difficoltà, in quanto «solo l’incapacità, e non già la difficoltà a prestare il consenso e a realizzare una vera comunità di vita e di amore, rende nullo il matrimonio» (ibid., n. 7, p. 1457); in terzo luogo, tra la dimensione canonistica della normalità, che ispirandosi alla visione integrale della persona umana, «comprende anche moderate forme di difficoltà psicologica», e la dimensione clinica che esclude dal concetto di essa ogni limitazione di maturità e «ogni forma di psicopatologia» (Allocuzione alla Rota Romana, 25.1.1988, cit., n. 5, p. 1181); infine, tra la «capacità minima, sufficiente per un valido consenso» e la capacità idealizzata «di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice» (ibid., n. 9, p. 1183).

Atteso poi il coinvolgimento delle facoltà intellettive e volitive nella formazione del consenso matrimoniale, il Papa Giovanni Paolo II, nel menzionato intervento del 5 febbraio 1987, riaffermava il principio secondo cui una vera incapacità «è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente le capacità di intendere e/o di volere» (Allocuzione alla Rota Romana, cit., n. 7, p. 1457). Al riguardo, sembra opportuno ricordare che la norma codiciale sull’incapacità psichica nel suo aspetto applicativo è stata arricchita e integrata anche dalla recente Istruzione Dignitas connubii del 25 gennaio 2005. Essa, infatti, per l’avverarsi di tale incapacità richiede, già al tempo del matrimonio, la presenza di una particolare anomalia psichica (art. 209, § 1) che perturbi gravemente l’uso di ragione (art. 209, § 2, n. 1; can. 1095, n. 1), o la facoltà critica ed elettiva in relazione a gravi decisioni, particolarmente per quanto attiene alla libera scelta dello stato di vita (art. 209, § 2, n. 2; can. 1095, n. 2), o che provochi nel contraente non solo una grave difficoltà, ma anche l’impossibilità di far fronte ai compiti inerenti agli obblighi essenziali del matrimonio (art. 209, § 2, n. 3; can. 1095, n. 3).

In quest’occasione, tuttavia, vorrei altresì riconsiderare il tema dell’incapacità a contrarre matrimonio, di cui al canone 1095, alla luce del rapporto tra la persona umana e il matrimonio e ricordare alcuni principi fondamentali che devono illuminare gli operatori del diritto. Occorre anzitutto riscoprire in positivo la capacità che in principio ogni persona umana ha di sposarsi in virtù della sua stessa natura di uomo o di donna. Corriamo infatti il rischio di cadere in un pessimismo antropologico che, alla luce dell’odierna situazione culturale, considera quasi impossibile sposarsi. A parte il fatto che tale situazione non è uniforme nelle varie regioni del mondo, non si possono confondere con la vera incapacità consensuale le reali difficoltà in cui versano molti, specialmente i giovani, giungendo a ritenere che l’unione matrimoniale sia normalmente impensabile e impraticabile. Anzi, la riaffermazione della innata capacità umana al matrimonio è proprio il punto di partenza per aiutare le coppie a scoprire la realtà naturale del matrimonio e il rilievo che ha sul piano della salvezza. Ciò che in definitiva è in gioco è la stessa verità sul matrimonio e sulla sua intrinseca natura giuridica (cfr Benedetto XVI, Allocuzione alla Rota Romana, 27.1.2007, AAS 99 [2007], pp. 86-91), presupposto imprescindibile per poter cogliere e valutare la capacità richiesta per sposarsi.
In questo senso, la capacità deve essere messa in relazione con ciò che è essenzialmente il matrimonio, cioè «l’intima comunione di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 48), e, in modo particolare, con gli obblighi essenziali ad essa inerenti, da assumersi da parte degli sposi (can. 1095, n. 3). Questa capacità non viene misurata in relazione ad un determinato grado di realizzazione esistenziale o effettiva dell’unione coniugale mediante l’adempimento degli obblighi essenziali, ma in relazione all’efficace volere di ciascuno dei contraenti, che rende possibile ed operante tale realizzazione già al momento del patto nuziale. Il discorso sulla capacità o incapacità, quindi, ha senso nella misura in cui riguarda l’atto stesso di contrarre matrimonio, poiché il vincolo messo in atto dalla volontà degli sposi costituisce la realtà giuridica dell’una caro biblica (Gn 2, 24; Mc 10, 8; Ef 5, 31; cfr can. 1061, § 1), la cui valida sussistenza non dipende dal successivo comportamento dei coniugi lungo la vita matrimoniale. Diversamente, nell’ottica riduzionistica che misconosce la verità sul matrimonio, la realizzazione effettiva di una vera comunione di vita e di amore, idealizzata su un piano di benessere puramente umano, diventa essenzialmente dipendente soltanto da fattori accidentali, e non invece dall’esercizio della libertà umana sorretta dalla grazia. È vero che questa libertà della natura umana, «ferita nelle sue proprie forze naturali» ed «inclinata al peccato» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 405), è limitata e imperfetta, ma non per questo è inautentica e insufficiente a realizzare quell’atto di autodeterminazione dei contraenti che è il patto coniugale, che dà vita al matrimonio e alla famiglia fondata su esso.
Ovviamente alcune correnti antropologiche «umanistiche», orientate all’autorealizzazione e all’autotrascendenza egocentrica, idealizzano talmente la persona umana e il matrimonio che finiscono per negare la capacità psichica di tante persone, fondandola su elementi che non corrispondono alle esigenze essenziali del vincolo coniugale. Dinanzi a queste concezioni, i cultori del diritto ecclesiale non possono non tener conto del sano realismo a cui faceva riferimento il mio venerato Predecessore (cfr Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 27.1.1997, n. 4, AAS 89 [1997], p. 488), perché la capacità fa riferimento al minimo necessario affinché i nubendi possano donare il loro essere di persona maschile e di persona femminile per fondare quel vincolo al quale è chiamata la stragrande maggioranza degli esseri umani. Ne segue che le cause di nullità per incapacità psichica esigono, in linea di principio, che il giudice si serva dell’aiuto dei periti per accertare l’esistenza di una vera incapacità (can. 1680; art. 203, § 1, DC), che è sempre un’eccezione al principio naturale della capacità necessaria per comprendere, decidere e realizzare la donazione di sé stessi dalla quale nasce il vincolo coniugale.

Ecco quanto, venerati componenti del Tribunale della Rota Romana, desideravo esporvi in questa circostanza solenne e a me sempre tanto gradita. Nell’esortarvi a perseverare con alta coscienza cristiana nell’esercizio del vostro ufficio, la cui grande importanza per la vita della Chiesa emerge anche dalla cose testé dette, vi auguro che il Signore vi accompagni sempre nel vostro delicato lavoro con la luce della sua grazia, di cui vuol essere pegno l’Apostolica Benedizione, che a ciascuno imparto con profondo affetto.

Dignitas Connubii

L'Istruzione "Dignitas connubii" offre ai giudici dei tribunali ecclesiastici un documento di indole pratica, una sorta di vademecum, che serva da guida immediata per un miglior adempimento del loro lavoro nei processi canonici di nullità matrimoniale.

Un documento analogo fu redatto nel 1936 con l'Istruzione "Provida Mater", che si riferiva al Codice di Diritto Canonico del 1917.

La "Dignitas connubii" è stata emanata per facilitare la consultazione e l'applicazione del Codice di Diritto Canonico del 1983. Infatti, da un lato, l'Istruzione presenta insieme tutto ciò che riguarda i processi canonici di nullità matrimoniale - a differenza del Codice, che contiene le norme in proposito sparse in diverse parti - e, dall'altro, si integrano gli sviluppi giuridici che si sono verificati nel periodo immediatamente postcodiciale: (...) contiene delle interpretazioni, dei chiarimenti sulle disposizioni delle leggi e delle ulteriori disposizioni sui procedimenti per la loro esecuzione.

L’Istruzione conferma la necessità di sottomettere la questione sulla validità di nullità del matrimonio dei fedeli a un processo veramente giudiziario.
A volte si ipotizzano vie di soluzioni più semplici, che addirittura risolverebbero il problema nel solo foro interno, mediante la cosiddetta 'nullità di coscienza', in cui la Chiesa altro non farebbe che prendere atto della convinzione degli stessi sposi circa la validità o meno del loro matrimonio. Talvolta, si auspica pure che la Chiesa rinunzi ad ogni sorta di processo, lasciando questi problemi giuridici nelle mani dei tribunali civili.

La Chiesa, al contrario, ribadisce la sua competenza per occuparsi di queste cause, poiché in esse è in gioco l'esistenza del matrimonio di almeno uno dei suoi fedeli, e tenendo soprattutto conto che il matrimonio è uno dei sette sacramenti istituiti dallo stesso Cristo ed affidati alla Chiesa. Disinteressarsi di questo problema equivarrebbe ad oscurare in pratica la stessa sacramentalità del matrimonio. Ciò risulterebbe ancor meno comprensibile nelle attuali circostanze di confusione sull'identità naturale del matrimonio e della famiglia in alcune legislazioni civili che non solo accolgono e facilitano il divorzio, ma addirittura, in qualche caso, mettono in dubbio l'eterosessualità come aspetto essenziale del matrimonio.

In un contesto di mentalità divorzistica, anche i processi canonici di nullità possono essere facilmente fraintesi, come se non fossero altro che vie per ottenere un divorzio con l'apparente beneplacito della Chiesa. (…) La dichiarazione di nullità non è nessun scioglimento di un vincolo esistente, bensì solo la constatazione, a nome della Chiesa, dell'inesistenza di un vero matrimonio fin dall'inizio. Anzi, la Chiesa favorisce la convalida dei matrimoni nulli, quando essa sia possibile.

“Gli stessi coniugi devono essere i primi a comprendere che solo nella leale ricerca della verità si trova il loro vero bene, senza escludere a priori la possibile convalidazione di un'unione che, pur non essendo ancora matrimoniale, contiene elementi di bene, per loro e per i figli, che vanno attentamente valutati in coscienza prima di prendere una diversa decisione”. (Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 28 gennaio 2002, n. 6)".