Recita il can. 1101 - §1. Il consenso interno dell'animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel celebrare il matrimonio.
§2. Ma se una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente.
Il matrimonio è il patto con il quale l'uomo e la donna costituiscono il consorzio di tutta la vita per sua natura ordinato al bene dei coniugi e alla generazione della prole. Anche se il matrimonio è un istituto di diritto naturale, poiché Cristo lo ha elevato alla dignità di sacramento fra battezzati, non può esistere un valido matrimonio tra di essi che non sia per ciò stesso sacramento.
Il matrimonio è costituito dal consenso delle parti manifestato fra persone per diritto abili. Questo atto consensuale poiché è l'atto di donazione e accettazione integrale, non può essere supplito una nessuna potestà umana.
Il consenso matrimoniale deve avere essere libero, volontario, razionale, umano e conforme a come la Chiesa interpreta il matrimonio. La Chiesa nella sua missione di annunziare la buona novella della salvezza delle anime, ha avuto anche il compito di statuire gli elementi e le proprietà essenziali del matrimonio senza i quali non può essere contratto un valido matrimonio; infatti è proprio attraverso l’osservanza degli elementi e delle proprietà che la Chiesa attribuisce al matrimonio che i coniugi tendono alla santificazione e alla testimonianza della fede in Cristo.
Nonostante che il matrimonio non sia solo un sacramento, ma anche un contratto, in questo particolare tipo di contratto i coniugi non hanno alcuna autonomia contrattuale e non possono decidere a proprio piacere il contenuto delle obbligazioni matrimoniali; d'altra parte poiché l'unione fra l'uomo e la donna significa l'unione di Cristo con la Chiesa, si tratta di una unione sacramentale che, manifestando la fede, non essere modificata nella sua sostanza, altrimenti non sarebbe più il simbolo dell’unione fra Cristo e la Chiesa.
Proprio dalla dignità sacramentale del matrimonio nasce l'obbligo per i coniugi di avere intenzione di fare un matrimonio conforme a come lo considera la Chiesa, del resto nella Gaudium et Spes n. 48, frutto del Concilio Vaticano II si dice che il matrimonio è un patto fondato dal creatore, governato dalle sue leggi e instaurato attraverso il consenso personale e irrevocabile.
Il canone 1101 § 1 C.I.C. stabilisce la presunzione di conformità dell'intenzione interna del nubente con i segni e le parole posti in essere durante la celebrazione del matrimonio; questa presunzione di conformità della volontà interna con la volontà esterna manifestata durante la celebrazione del matrimonio, discende proprio dal canone 1060 C.I.C. il quale statuisce il più generale principio di validità del matrimonio celebrato fino alla prova giudiziale della sua nullità. Per la dichiarazione della nullità del matrimonio canonico è necessario perciò superare la presunzione di conformità fra la volontà interna e la volontà esterna che è stata manifestata al momento della celebrazione del matrimonio.
Sia in dottrina che in giurisprudenza si distingue tra l'esclusione totale e l'esclusione parziale, nel primo caso colui che contrae matrimonio lo fa con una volontà interna di non contrarre matrimonio, nel secondo caso colui che contrae matrimonio, pur volendo contrarlo, vuole un tipo di matrimonio non conforme all'idea di esso della Chiesa. Di conseguenza nella simulazione parziale il contraente ha una disposizione d'animo del tutto diversa da quella della simulazione totale e l’esclusione anche di tutti i beni del matrimonio dal proprio consenso, non può essere detta esclusione totale poiché, pur con la volontà di escludere tutti i beni del matrimonio, il contraente voleva il matrimonio, non mancava del tutto la volontà di non contrarlo.
In diritto canonico si parla spesso di simulazione, ma impropriamente, poiché il Codice di Diritto Canonico non parla mai di simulazione, ma soltanto di esclusione. Fra simulazione ed esclusione vi è una sottile differenza poiché con il termine simulazione si intende un patto esclusivamente bilaterale diretto a simulare del tutto o solo parzialmente l'atto giuridico che è stato posto in essere, mentre invece l'esclusione può essere non solo bilaterale, ma anche unilaterale perciò posta in essere da un solo contraente. In diritto civile non si concepisce la simulazione unilaterale, perciò il legislatore non parla mai di esclusione ma solo di simulazione che è per sua natura solo bilaterale.
La simulazione è la discordanza fra la volontà interna e la volontà manifestata esternamente; nella simulazione il contraente, pur manifestando di volere porre in essere l'atto giuridico, internamente o non lo vuole del tutto, o lo vuole senza un elemento o una sua proprietà essenziale.
Nel processo canonico è possibile provare in giudizio che uno dei contraenti, anche solo unilateralmente, escluse il matrimonio stesso o una sua proprietà essenziale con un atto positivo di volontà; per la dichiarazione della nullità del matrimonio è necessario quindi superare la presunzione di conformità fatta dal canone 1101, fra volontà interna e volontà esternamente manifestata. Ciò che provoca la nullità del matrimonio è l'atto positivo di volontà escludente posto in essere dal contraente al momento della celebrazione del matrimonio.
In relazione all'atto positivo di volontà la dottrina e la giurisprudenza, nel corso degli anni, ha elaborato tre teorie: la teoria dei due atti positivi di volontà, secondo la quale al tempo della manifestazione del consenso matrimoniale vi sono due atti positivi di volontà, il primo diretto a contrarre matrimonio, il secondo diretto ad escludere il matrimonio stesso o un suo elemento o proprietà essenziale, la teoria della volontà prevalente, secondo la quale al tempo della manifestazione del consenso matrimoniale, fra le due volontà, quella interna e quelle esterna, prevalse una volontà sola, diretta a contrarre o a non contrarre matrimonio, la teoria dell'unico atto positivo di volontà, teoria tuttora utilizzata e prevalente in dottrina e in giurisprudenza, secondo la quale anche se il nubente durante la celebrazione del matrimonio aveva manifestato il proprio consenso, si può parlare di un solo atto positivo di volontà poiché la vera volontà del nubente non era quella esterna ma quella interna diretta ad escludere.
L'atto positivo di volontà ha tre elementi, l'atto, poiché è necessario che il nubente manifesti la propria volontà di escludere un elemento o una proprietà essenziale del matrimonio per mezzo di un atto esplicito o implicito, la positività, poiché non è sufficiente che all'atto sia negativo – nolle -, ma è necessario dell'atto sia positivo - velle non -, volontà, poiché non è sufficiente che l'intenzione escludente rimanga nell'intelletto, ma è necessario che vi sia una vera e propria volontà escludente un elemento o una proprietà essenziale del matrimonio.
Ai fini della dichiarazione della nullità del matrimonio non è necessario che l’atto positivo di volontà sia esplicito, cioè espresso attraverso delle parole che manifestino l'intenzione escludente, ma è sufficiente che l'atto sia implicito, cioè espresso attraverso dei fatti, delle circostanze, che manifestino l'intenzione escludente del nubente.
Il vero atto positivo di volontà non deve essere confuso con le figure simili che non essendo atti positivi di volontà, non provocano la nullità del matrimonio: l'intenzione interpretativa, che si ha quando un coniuge dice, se al tempo della celebrazione del matrimonio vi avessi pensato, avrei escluso quel bene del matrimonio, l'intenzione abituale, che si ha quando il nubente, anche se prima del matrimonio voleva escludere un elemento o una proprietà essenziale del matrimonio, poi, al tempo della celebrazione dello stesso, non aveva reso attuale questa intenzione, rinunciando all'esclusione, la volontà generica costituita, che si ha quando il nubente, prima della celebrazione del matrimonio, aveva una disposizione generale dell'animo favorevole all'esclusione, ma poi, al momento della celebrazione del matrimonio, non l'aveva concretizzata in un atto positivo di volontà escludente.
Nell'esclusione parziale possono essere esclusi sia gli elementi essenziali del matrimonio sia le proprietà essenziali; gli elementi del matrimonio sono stati individuati nei tre beni agostiniani, il bonum fidei, il bonum prolis, il bonum sacramenti, più il bonum coniugum [1], le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l'indissolubilità [2].
Bonum Sacramenti. Il bene dell'indissolubilità del matrimonio sorge in via diretta dalla sacramentalità dello stesso, lo ribadisce il can. 1056 che lo elenca fra le proprietà essenziali del matrimonio canonico. Le proprietà essenziali del matrimonio ai sensi dello stesso canone in virtù del sacramento ottengono particolare fermezza [3].
L'unione fra l'uomo e la donna attraverso il sacro vincolo del matrimonio è indissolubile poiché rappresenta l'unione fra Cristo e la Chiesa che è per sua natura indissolubile, da questo punto di vista l'unione perpetua fra i coniugi nel matrimonio è una testimonianza di fede che tutti coloro che lo contraggono hanno il dovere di portare nei confronti della comunità.
Vi è una relazione intrinseca fra il matrimonio perpetuo e l'amore coniugale, infatti colui che veramente ama, essendo ispirato da quell'amore che ha spinto all'unità perpetua Cristo con la chiesa, non desidera contrarre un matrimonio indissolubile e spera che l'unione possa durare per tutta la vita.
Il bene dell'indissolubilità può essere escluso nel momento di contrarre matrimonio, se ciò avvenga attraverso un atto positivo di volontà con il quale il nubente si ripropone di contrarre un vincolo solubile, contrae invalidamente. Ciò significa che non è sufficiente il mero errore sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ma si richiede un vero e proprio atto positivo di volontà con il quale il nubente, essendo a conoscenza dell’indissolubilità del matrimonio canonico, voglia contrarre un matrimonio solubile.
L'esclusione del bene dell'indissolubilità, secondo giurisprudenza unanime, provoca la nullità del matrimonio sia se è posto sia in senso assoluto, cioè, se il matrimonio sarà infelice divorzierò, sia in senso ipotetico, cioè, se sarà il caso, se sarai infedele, sterile, divorzierò [4].
Il bene dell'indissolubilità è escluso anche se il nubente faccia dipendere lo scioglimento del vincolo da una qualche circostanza futura e incerta, in questo caso, non si tratta di una condizione ma di esclusione dell'indissolubilità.
Nel bonum sacramenti, non si distingue fra il diritto e l'esercizio del diritto.
Perché il matrimonio sia nullo per esclusione dell'indissolubilità, non è sufficiente la forma mentis del nubente o la sua idea che il matrimonio debba essere dissolubile, né la semplice disposizione di animo a favore dell’indissolubilità infatti, è necessario che esso con un atto positivo di volontà si riservi il diritto di sciogliere il vincolo in caso di infelice esito del matrimonio.
Si deve però ricordare che parte della dottrina rileva che, in caso di errore pervicace, essendo il nubente totalmente compenetrato dalla propria idea che il matrimonio sia dissolubile, si deve ammettere che l'atto positivo di volontà possa essere almeno implicitamente supposto poichè il nubente non avrebbe potuto agire diversamente da come egli pensava che il matrimonio dovesse essere.
Generalmente quando si accusa il matrimonio di nullità per l'esclusione del bene dell'indissolubilità, colui che aveva escluso tale bene riferisce di avere voluto riservarsi il diritto di divorziare in caso di infelice esito del matrimonio; a questo riguardo la giurisprudenza si è chiesta se il termine divorzio, utilizzato dal simulante, debba essere interpretato come limitato alla vincolo civile oppure esteso anche al vincolo canonico. La questione non è di minore importanza poiché se il nubente riservandosi il diritto di divorziare intendesse dire che si riserva il diritto di sciogliere il vincolo matrimoniale civile, il matrimonio canonico resterebbe valido, mentre invece, se il nubente riservandosi il diritto di divorziare intendesse riferirsi anche al vincolo canonico il matrimonio sarebbe nullo.
A questo riguardo parte della giurisprudenza distingue fra la riserva di divorzio solo civile e la riserva di divorzio anche canonico, parte della giurisprudenza invece non fa questa distinzione e ritiene che l'intenzione di divorziare, e quindi di cessare la convivenza matrimoniale, debba essere necessariamente riferita sia al vincolo civile sia al vincolo canonico a meno che il nubente non lo escluda espressamente.
In ogni modo la giurisprudenza generalmente ammette che quando si è provato che il nubente si fosse riservato il diritto di divorziare prima della celebrazione del matrimonio, sia una presunzione a favore del fatto che questo proposito di divorziare sia riferito non solo al vincolo civile ma anche al vincolo canonico [5].
Note
[1] Cfr. can. 1055 C.I.C: “Il patto matrimoniale con cui l'uomo è la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla generazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento”.
[2] Cfr. can. 1056 C.I.C.
[3] Cfr. can. 1056 C.I.C.
[4] Cfr. coram Funghini, decisio diei 28 martii 1990, n. 2, in R. R. Dec., vol. LXXXII, p. 241; coram Palestro, decisio diei 19 februarii 1992, n. 3, in R. R. Dec., vol. LXXXIV, p. 65
[5] Coram Colagiovanni, die 17 ianuarii 1984, n. 5, in R.R.Dec., vol. LXXVI, p. 19.
lunedì 2 marzo 2009
L’esclusione del bonum sacramenti dal consenso matrimoniale canonico
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